Quando si ha diritto all’integrazione al minimo della pensione?
Quando si ha diritto all'integrazione al minimo della pensione

Quando si ha diritto all’integrazione al minimo della pensione?

L’integrazione al minimo della pensione è una misura di tutela sociale prevista dall’ordinamento italiano, pensata per garantire ai pensionati un reddito minimo, considerato essenziale per una vita dignitosa.

In questo articolo vedremo in cosa consiste questa integrazione e quali sono i riferimenti normativi che ne regolano il funzionamento e l’adeguamento nel tempo. Analizzeremo poi i requisiti richiesti per potervi accedere e i soggetti che ne sono esclusi.

Approfondiremo anche i limiti di reddito previsti per ottenere l’integrazione, che in alcuni casi tengono conto anche del reddito del coniuge. Infine, esamineremo i vantaggi dell’adesione a un fondo pensione per coloro che non possono beneficiare dell’integrazione al minimo.

Cos’è l’integrazione al minimo della pensione?

Introdotta dalla Legge 638/1983, l’integrazione al minimo si applica quando l’importo della pensione è inferiore al cosiddetto “trattamento minimo”, stabilito annualmente dallo Stato. In pratica, se la pensione spettante risulta più bassa di questa soglia, l’INPS provvede a integrarla fino a raggiungere l’importo minimo previsto dalla legge.

Lo scopo di questa misura è cercare di contrastare la povertà tra i pensionati, assicurando che nessun titolare di pensione riceva un reddito inferiore a una soglia considerata essenziale. 

Il valore del trattamento minimo viene aggiornato ogni anno sulla base dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo, per tenere conto dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita. 

Per il 2025, il trattamento minimo è stato fissato a 603,40 euro mensili per tredici mensilità, come indicato nella circolare INPS n. 23 del 28 gennaio 2025. A questo importo si aggiunge un incremento del 2,2%, stabilito dalla Legge di Bilancio 2025, che porta l’assegno minimo a 616,67 euro al mese.

Va precisato che l’integrazione al minimo non viene riconosciuta automaticamente a tutti i pensionati, ma solo a coloro che rispettano determinati requisiti, come vedremo più avanti.

Chi ha diritto all’integrazione della pensione?

Il diritto all’integrazione al minimo spetta a chi percepisce una pensione di importo inferiore al trattamento minimo, come visto in precedenza. Per poterne beneficiare, è tuttavia necessario soddisfare i seguenti requisiti:

  • essere titolari di pensioni dirette (vecchiaia, anticipata, invalidità) o indirette (reversibilità, superstiti) erogate dall’INPS, dai fondi speciali per i lavoratori autonomi o dai fondi sostitutivi o esclusivi dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO);
  • aver maturato il diritto alla pensione con il sistema retributivo o misto, cioè aver iniziato a versare contributi prima del 1° gennaio 1996;
  • avere la residenza in Italia.

Restano esclusi dall’integrazione al minimo i titolari di pensioni calcolate interamente con il sistema contributivo, ovvero coloro che hanno versato il primo contributo dopo il 31 dicembre 1995. Tuttavia, se in possesso dei requisiti richiesti, questi soggetti possono accedere a una quota di assegno sociale.

Qual è il limite di reddito per ottenere l’integrazione al minimo?

Il limite di reddito per ottenere l’integrazione al minimo della pensione viene stabilito annualmente e varia in base alla situazione familiare del pensionato (single o coniugato) e alla data di decorrenza della pensione. Per il 2025, i valori aggiornati sono stati comunicati dall’INPS con la già citata circolare n. 23/2025 e dalla Legge di Bilancio 2025.

Per i pensionati non coniugati, il limite di reddito personale per avere diritto all’integrazione piena è pari a 7.844,20 euro annui. Se il reddito personale supera questa soglia, ma resta inferiore a 15.688,40 euro annui, spetta comunque un’integrazione parziale, calcolata in modo da non oltrepassare l’importo del trattamento minimo.

Nel caso di pensionati coniugati, la normativa distingue tra:

  • pensioni con decorrenza fino al 31 gennaio 1994: si considerano solo i redditi del titolare, anche se è sposato;
  • pensioni con decorrenza successiva al 31 gennaio 1994: si valutano sia i redditi individuali che quelli del coniuge. In questo caso, il pensionato non deve superare il limite individuale di 15.688,40 euro annui e il reddito complessivo della coppia non deve oltrepassare quattro volte il trattamento minimo, pari a 31.376,80 euro annui per il 2025.

Per i pensionati andati in quiescenza nel 1994, i limiti sono differenti: il reddito individuale non deve superare i 15.688,40 euro annui, mentre quello coniugale è fissato a 39.221,00 euro annui.

L’integrazione viene riconosciuta in misura piena se il reddito (personale o coniugale) rientra nei limiti minimi. Se invece supera il minimo, ma resta entro il tetto massimo previsto, l’integrazione sarà parziale: l’importo viene calcolato sottraendo il reddito dal limite massimo e dividendo la differenza per il numero di mensilità.

Il rispetto di questi limiti è fondamentale per accedere all’integrazione al minimo, che viene verificata ogni anno dall’INPS sulla base delle dichiarazioni reddituali fornite dal pensionato.

Integrare con il fondo pensione

Abbiamo visto che, per i lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria a partire dal 1996, non è prevista l’integrazione al minimo. Per questi soggetti, dunque, l’adesione a forme di previdenza complementare – come i fondi pensione – assume quindi un ruolo fondamentale.

L’obiettivo principale di un fondo pensione è proprio quello di affiancare la pensione pubblica, offrendo un’integrazione che consenta di mantenere un adeguato tenore di vita all’uscita dal mondo del lavoro. In assenza dell’integrazione al minimo, questa forma di previdenza complementare diventa una valida soluzione da considerare con attenzione.

I fondi pensione negoziali, come ad esempio Telemaco, permettono di destinare al fondo il proprio TFR e, con un contributo minimo a carico del lavoratore, danno il diritto a ottenere anche un contributo aggiuntivo versato dal datore di lavoro. L’aderente può anche decidere di effettuare versamenti ulteriori, anche una tantum, così da accrescere la propria posizione individuale. In questo modo, la costruzione di una pensione integrativa può risultare più accessibile e sostenibile dal punto di vista finanziario.

A partire dal 2025, inoltre, per i lavoratori in regime contributivo è prevista un’importante novità: sarà possibile accedere alla pensione anticipata sommando i contributi versati nella previdenza complementare a quelli della previdenza pubblica. Per usufruire di questa opportunità, però, è necessario soddisfare alcune condizioni:

  • avere almeno 64 anni di età;
  • aver maturato almeno 25 anni di contributi (soglia che salirà progressivamente fino a 30 anni entro il 2030);
  • rientrare nel cosiddetto regime contributivo puro, ossia essere iscritti alla previdenza pubblica a partire dal 1° gennaio 1996;
  • avere un importo maturato pari ad almeno 3 volte il trattamento minimo per gli uomini; per le donne, la soglia si riduce a 2,8 volte con un figlio e a 2,6 volte con due o più figli.

Questa riforma rappresenta un passo importante verso una maggiore flessibilità in uscita dal lavoro, promuovendo allo stesso tempo l’adesione alla previdenza complementare.

In conclusione, per i lavoratori che andranno in pensione con il sistema contributivo puro, il fondo pensione si configura come uno strumento strategico per tutelare il proprio futuro previdenziale.

Sul tema consigliamo la lettura del nostro articolo Quando è possibile chiedere il prepensionamento.

Messaggio promozionale riguardante forme pensionistiche complementari. Prima dell’adesione leggere la Parte I “Le informazioni chiave per l’aderente” e l’Appendice “Informativa sulla sostenibilità” della Nota informativa.

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